RICCARDO CORTI:
RITRATTI
Non
sono passati neanche tre anni dall'ultima volta che ho sentito Riccardo
Corti parlare dell'esigenza di portare la sua pittura a una sintesi
ancora più radicale; licenziare le proprie opere - questo diceva
- senza la necessità di confrontarsi con un soggetto per arrivare
semplicemente a "rappresentare un bianco totale e nient'altro".
Desiderava saper rinunciare "pure" a quei due bastoncini
incrociati a cui ci ha abituati da molto tempo, che testimoniano,
meglio della sua stessa firma, il rapporto tra la presenza fisica
dell'artista e il proprio lavoro.
Tutto questo avveniva mentre osservavamo tre delle sue opere di allora:
una sola delle quali sarebbe stata esposta per la mostra Domani,
forse; prima tra le immagini a comparire in catalogo. Soggetto
di questi tre quadri, appunto, quei bastoncini su uno sfondo bianco
trattato con tre diverse tecniche di stesura. Portano il titolo di
Amore e sono quanto di più autorappresentativo l'autore
metta in gioco. Sono come veri e propri autoritratti se ci lasciamo
per un attimo suggestionare dal rapporto che si instaura tra il soggetto,
quella simbologia ampiamente ribadita dei bastoncini, e il titolo.
Oggi Riccardo Corti ci fa partecipi della sua ultima produzione dimostrando
di aver concentrato il suo interesse attorno al genere del ritratto.
Se vogliamo parlare di questa sua fase, è bene ricucire tra
loro le parti del discorso, accostare gli indizi, per mettere in luce
una storia che dia conto di come l'artista si rappresenti proprio
nel momento in cui sente il bisogno di arrivare all'annullamento di
ogni elemento figurativo, e di come tutto questo lo conduca poi a
una cosa tanto apparentemente diversa come il ritratto.
In arte, lo si
sa, il manifesto, come ogni affermazione programmatica, deve essere
preso con le pinze. Quello che poi conta è sempre e solo l'opera
d'arte che si realizza. Tra quest'ultima e quanto si è detto
di voler essere o fare c'è sempre una giusta diversità.
Per questa ragione le parole di Corti non possono essere prese alla
lettera. Se Riccardo Corti ha mai pensato seriamente di realizzare
un tale progetto, l'ha fatto con l'idea di fare un'azione, non ancora
un'opera. Perché l'opera riesca ad esprimere realmente una
nuova azione bisogna che abbia inizio una diversa ricerca non meno
laboriosa di quanto già percorso. Ciò vale anche quando
si parla di mettere in atto una pittura informale o gestuale, concettuale
o quant'altro.
La necessità di agire lungo linee direttrici nette e provocatorie
appartiene a tutte le avanguardie, siano esse quelle storiche di inizio
Novecento o successive. E ogni volta le avanguardie, con la loro capacità
di aprire sempre nuove frontiere, appartengono alla contemporaneità.
Quando, con il senno del poi, tiriamo le fila degli avvenimenti, continuiamo
a vedere le cose in questi termini. Così si inizia già
a considerare gli artisti dell'arte cinetica o programmatica attivi
alla fine degli anni '60 come "l'ultima avanguardia", in
attesa di spostare ulteriormente questa etichetta verso il nostro
presente storico. Il fatto stesso che anche la storiografia continui
ad avere bisogno del termine "avanguardia" per dare nuove
letture dei fatti che interessano il passato più prossimo è
già di per sé la prova della loro perenne modernità.
In pratica succede che l'artista può acquistare piena identità
soltanto evidenziando l'incompatibilità tra lui e l'oggi, creando
così nuove rotture che frantumino la concezione di una progressione
storica lineare.
Il tutto è un susseguirsi di brusche interruzioni e fratture
che comportano una ripetizione infinita. Anche la stessa assuefazione
al nuovo si ripete all'infinito. Questo processo viene assorbito attraverso
una sua apparente inversione di polarità che lo porta ad essere
snob nella sua ricezione, chic nella sua diffusione. Ecco che
questi due ultimi aspetti, evidenziati anche da Flaminio Gualdoni
ne Il trucco delle avanguardie, l'essere snob e chic,
che lo si voglia o no, sono per la società moderna costanti
tanto quanto il rifiuto e la ribellione. Più sarcastiche e
autocritiche, diventano oggi maggiormente efficaci. La condizione
di puro sentimento di rivolta che forniva alle poesie di Dino Campana
quella "dinamite fetida" da scagliare contro la società
dei benpensanti fatica a rinnovarsi e sempre più spesso la
si evoca ingenuamente se non addirittura in malafede. E non è
certo un caso, invece, che la sconcertante appropriazione di Andy
Warhol di tutto ciò che è familiare, il suo mostrarlo
forzosamente nel suo essere chic, riemerga con energia e con
piena approvazione del mercato. Si pensi a un artista come Jeff Koons
le cui opere oggi toccano cifre vertiginose. E tutto questo è
sicuramente snob!
Riccardo Corti
è un artista, e per un artista è necessario mettere
in discussione lo status quo delle cose; spezzare la linearità.
Come abbiamo visto, anche a scavare nel terreno della storia dell'arte
contemporanea Corti non incontra altro che sussulti, fremiti, aritmie.
Inizia a lavorare in direzione di un procedere per sottrazione. Abbandona
il colore dei suoi sfondi, la rarefazione nebulosa, movimento e profondità
di campo. Poi erode i soggetti: i pini, il mare, le arance in sezione.
Arriva a lasciare quanto più di suo e caratteriale ha saputo
plasmare all'interno del proprio sistema simbolico. Si porta in questo
modo pericolosamente a un punto di stallo. Spezza la fluidità
del volo e inventa un'altra traiettoria. I soggetti smettono di essere
introflessi paesaggi della sua personale sensibilità per diventare
i ritratti di questa mostra o, ancor meglio, il mondo per come si
presenta. Tutto questo senza che stile e tecnica mutino in maniera
appariscente.
Sfruttando al meglio i processi edonistici insiti nella natura stessa
del ritratto dà vita al gioco dell'apparire. I volti si infiammano
di rosso, si colorano di blu e di verde. Così facendo, l'autore
cita coscientemente Warhol, acquista un linguaggio figurativo pop,
e questo non è certo un caso. Il processo di preparazione del
quadro è l'immagine a raggi X, la serigrafia, la traduzione
dal reale alla realtà della persona ritratta. Perché
la realtà è sulla tela ed è quella che lo spettatore
deve indagare. Riflettiamo per un istante sul processo con il quale
nascono queste opere. Corti ha fotografato il soggetto più
e più volte. Dopo aver sviluppato tutto in diapositive, proietta
le immagini sulla tela bianca studiando l'inquadratura. È un'operazione
attenta che viene svolta insieme alla persona fotografata. Molto più
di un semplice colloquio, l'artista indaga la psicologia, traslittera
l'individuo in comportamenti sociologici dove espressività,
proporzioni e posture ne sono la manifestazione più diretta.
A questo punto utilizza una tavola per l'accostamento dei colori che
andranno a comporre lo sfondo. In questa tavola Corti ha raccolto
tutte le possibili lenti per mettere a fuoco la società di
oggi con quel filtro pop suggerito dalla lezione di Warhol.
Ma, a differenza del maestro americano, l'operazione non avviene sulla
base di fotoimpressioni. Corti si dedica a quella minuziosa e maniacale
pittura che lo ha sempre distinto. Non è la realtà fissata
dallo scatto sulla pellicola che lo interessa. E neanche intervenire
sopra di essa a modificarne e personalizzarne il risultato finale.
Con atteggiamento provocatoriamente snob, Riccardo Corti deve
ricostruire interamente l'immagine per applicare il suo personale
canone estetico, l'idea di una bellezza piena che cristallizzi il
volto dentro un'aura quasi impersonale. Ogni suo ritratto deve appartenere
a una comunità mitica, di assoluta bellezza.
Viene alla mente il gioco di allusioni che René Magritte costruisce
nella sua famosa serie di Ceci n'est pas une pipe, quel "calligramma
disfatto" come lo definiva Michel Foucault. Allo stesso modo,
dei ritratti di Corti si potrebbe dire "questo non è Tommaso",
"questa non è Francesca", "questa non è
Ginestra". Ma, a differenza di tutte le relazioni che nel suo
saggio Foucault instaura tra i diversi significanti in gioco nelle
opere di Magritte, a noi interessa che questo ritratto sia un quadro,
che l'immagine che si rappresenta sia vista semplicemente come un
quadro. È questa la matrice pop che dà efficacia
al richiamo che Corti fa a Warhol. Non si produce solamente il ritratto
della persona ma un soggetto per l'oggetto-quadro. Ecco perché
essere ritratti da Riccardo Corti è intelligente e sapientemente
snob e chic.
MARCO
DEL MONTE
(dal catalogo della mostra 'Ritratti' di Riccardo Corti, Mercurio
Arte Contemporanea, 5 - 30 dicembre 2009)