FEDERICO SARTORI: VIAREGGIO

La vicenda artistica e umana di Federico Sartori (Milano, 1865 -1938) si configura esemplare e analoga a quella di numerosi altri artisti italiani a lui coevi, i quali contribuirono a creare un'arte che seppe narrare attraverso la pittura, in un'epoca di profonde trasformazioni, sia la vita quotidiana sia l' "immagine" di una società che, evolvendosi, andava creando una nuova iconografia adatta a rappresentarla. Le suggestioni simboliste, il divisionismo, ma soprattutto la facoltà eclettica del liberty, appresi durante l'apprendistato a Milano a fianco di figure quali Vittore Grubicy De Dragon, Vincenzo Morbelli, Gaetano Previati, Giuseppe Pellizza da Volpedo, tracciarono il sentiero sul quale si sarebbe mossa la ricerca artistica del Nostro, prediligendo ora gli uni ora gli altri aspetti, anche a seconda dei temi trattati, senza esimersi dall'evocare altri stili - quali il manierismo e il barocco - quando si trattò di affrontare invece i cicli dedicati all'arte sacra, di cui peraltro Viareggio conserva, sia pure al momento celato da strati di intonaco, uno degli esempi più significativi.

La consistenza e la varietà della produzione di Sartori è tale per cui non ci è permesso in questa sede che darne enunciazione: merita e necessita infatti di uno studio lungo e accurato, che auspichiamo possa avvenire quanto prima. Ci limiteremo quindi, in occasione di questo suo "ritorno" a Viareggio dopo circa 70 anni, ad una prima analisi di quanto maturò nella città che scelse come residenza al rientro dal suo lungo dorato esilio argentino. Sottolineando qui, sia pure di sfuggita, come anche in questo suo avventurarsi, e con fortuna, dall'altra parte del mondo, percorse strade analoghe non solo ad una moltitudine anonima di italiani, ma anche ad uno svariato numero di artisti, alcuni dei quali ritrovò a Viareggio fra le due guerre, come Plinio Nomellini, Luigi De Servi, Ferruccio Pagni. La stessa scelta di vivere nella Versilia di quegli anni rende la sua esperienza esemplare di un atteggiamento comune tipico dell'epoca, che vide intellettuali e uomini di cultura individuare in questa terra un luogo ideale, non solo per la qualità della vita quotidiana ma anche per la creazione e la ricerca.

Quindici anni, più o meno, tanti furono quelli che Federico Sartori trascorse a Viareggio, dal 1920 alla metà degli anni Trenta, durante i quali si dedicò sia ad una copiosa produzione privata, sia alla realizzazione di due committenze a soggetto sacro: la lunetta di Santa Dorotea sulla facciata dell'omonimo convento sito in via XX Settembre e tuttora visibile, ma soprattutto il ciclo di affreschi nella chiesa della Misericordia in corso Garibaldi, cui più sopra si accennava, dal 1958 ricoperto di intonaco ma di cui ancora i più anziani a Viareggio conservano memoria, come l'artista novantaquattrenne Giorgio Michetti che addirittura lo vide realizzare. Si deve ad un articolo di Franco Anichini ('Un pittore scomparso', Viareggio Ieri, settembre 1990) una circostanziata, e finora unica, rievocazione dell'opera: da questo articolo la nipote Laura, che da anni sta conducendo un encomiabile lavoro di ricostruzione dell'intera opera del nonno, è partita per un'azione volta al recupero degli affreschi e per la quale ha anche ottenuto recentemente il parere favorevole della Soprintendenza alle Belle Arti di Lucca.

Altrettanto importante, sia pure apparentemente meno imponente, è la testimonianza della vita e della città che Sartori ci ha lasciato attraverso alcune decine di quadri e centinaia di disegni che narrano di quei brulicanti anni fra le due guerre in cui Viareggio vide, a fianco della comunità indigena in prevalenza composta da marinai e pescatori, il prolungato soggiorno di aristocratici, artisti, intellettuali, uomini politici, che vi crearono un ambiente culturalmente ricco, fertile e vivace, mentre Alfredo Belluomini e Galileo Chini prima, la scuola razionalista dopo, la edificavano scrivendo una significativa pagina di storia dell'architettura.

A Sartori non sfuggì nulla di quell'animato via vai: un occhio, il suo, distaccato ma non estraneo, colmo di curiosità, che lo fece attardare su ogni aspetto della piccola città, cosmopolita e marinara allo stesso tempo. E così le corse dei cavalli e i venditori di pesce, le prime auto sui viali e le paranze colorate sui moli, l'eleganza delle ricche signore e i gesti delle popolane, tutto fu catturato dalla sua grande abilità di disegnatore che certamente gli proveniva da quel primo apprendistato a bottega come incisore nella sua lontana adolescenza.

Questa mostra raccoglie alcune opere di questa produzione, esemplari di diversi momenti interpretativi, che ben sintetizzano i linguaggi che Sartori adottò nella sua ricognizione sulla città. I quattro dipinti del 1923 (Entrata delle paranze, Cavallo al sole, Alla fonte, Paranze nel porto) echeggiano l'esperienza coloristico divisionista che dovette apparirgli congeniale per tradurre la luce locale e i colori della Darsena, satura di toni con i riflessi delle vele variopinte nelle acque del canale, i vapori rosacei dei tramonti marini e anche una sorta di percezione delle fatiche degli abitanti come alacrità positiva. Per così dire "spensierata", alla maniera di Moses Levy, appare la rappresentazione vacanziera di Coppia di tennisti in pineta (1929), Taverna del Gatto Nero (1933), Tennis Italia (1933), per i quali non a caso sceglie la dimensione quasi bidimensionale della cartellonistica, come a voler significare una sana superficiale leggerezza della città loisir. Allo stesso periodo appartengono anche immagini di marcata impaginazione ottocentesca - Marginetta presso il ponte di Pisa (1931), Fanciulli alla fontanella al tramonto (1931) - pervase da una visione intimistico paternalistica. Qualcosa di epico aleggia sul Pescatore di cee (sempre del 1931), che emerge dal buio come una visione a ridosso dell'enorme chiglia che lo sovrasta, mentre scruta nell'oscurità in cerca dei minuscoli preziosi pesciolini. Nulla sfugge all'occhio dell'artista, quindi non poteva mancare in questo suo racconto il carnevale - Maschere (1931) - del quale tuttavia non coglie la coreografia della festa ufficiale, bensì un'istantanea di maschere, un onirico baccanale.

In mostra anche alcuni dei numerosissimi disegni che Sartori ha realizzato per quindici anni a getto continuo. Quando a suo tempo li visionammo tutti per pubblicarne una serie sulla rivista Sinopia, ci apparvero come un fresco e vivace "filmato" d'epoca, libero da ogni pregiudizio sia sociale sia stilistico, una rappresentazione fedele dello spirito di quegli anni attuata fondendo e adattando, come per i quadri, i linguaggi simbolisti e liberty alle situazioni rappresentate. L'accuratezza che dedicava alla loro realizzazione dimostra che spesso non si trattava di meri appunti ma di opere compiute, come è il caso, ad esempio, delle Barche, immagine peraltro ancora attuale nel nostro porto in cui imponenti imbarcazioni affiancano piccoli gozzi, o dello Scafo, documento di una prassi costruttiva d'altri tempi che, da un lato rese celebri nel mondo i maestri d'ascia locali, dall'altro conferiva al paesaggio un aspetto surreale, con la presenza di queste grandi masse scheletriche che andavano trasformandosi, giorno dopo giorno, sotto gli occhi di tutti, in superbi natanti.

Sartori si iscrive a buon diritto fra gli artisti che hanno contribuito a fare, attraverso la pittura, la storia della città, avendone allora in cambio un immediato riconoscimento del suo talento e, come ricordavamo all'inizio, importanti committenze. Se la sua vita e la sua arte hanno condiviso, come quelle di altri artisti, l'atmosfera e il successo di un'epoca, altrettanto hanno conosciuto l'oblio che ha successivamente avvolto e talora addirittura quasi derubricato queste esperienze dalla storia dell'arte del periodo. Tuttavia, gli studi che in questi anni hanno avviato una serie di recuperi e di riflessioni su quanto avvenuto nella produzione artistica italiana, parallelamente alle avanguardie, nel periodo in questione, lasciano supporre che anche una figura come quella di Federico Sartori possa ottenere l'adeguato riconoscimento e la rivalutazione che merita. E' quindi legittimo sperare che questa mostra possa dare un impulso per la riscoperta di un autore la cui produzione pittorica, svoltasi per oltre cinquant'anni, contribuisce a definire quel complesso periodo dell'arte italiana in cui suggestioni europee si mescolavano ad indirizzi regionali, nella rappresentazione di vicissitudini storiche e quotidiane, con risultati di tutto rilievo.


ANTONELLA SERAFINI

Viareggio, gennaio 2007